Sviluppo tecnologico e nuovo umanesimo

Nel contesto del Job Festival 2024, il secondo incontro “Scienza e Umanesimo” ha visto la partecipazione di Sua Eminenza Cardinale Gualtiero Bassetti, figura di spicco del panorama religioso italiano e internazionale. Il suo intervento ha rappresentato un’occasione preziosa per riflettere sul dialogo tra fede e ragione, due dimensioni fondamentali dell’esistenza umana che spesso vengono contrapposte, ma che in realtà possono arricchirsi e illuminarsi a vicenda. L’incontro si è concentrato sull’imponente avanzamento tecnologico e sulle sue implicazioni per il destino dell’umanità. Il Cardinale Bassetti ha guidato una discussione articolata sulla simbiosi tra uomo e macchina, esplorando un futuro in cui i confini tra il mondo reale e quello virtuale si fondono sempre più e la tecnologia assume un ruolo sempre più centrale nella nostra vita quotidiana. Con una visione illuminata, il Cardinale ha sottolineato l’importanza cruciale di un nuovo umanesimo che ponga la tecnologia al servizio dell’uomo anziché come suo dominatore.

La lettera che alleghiamo, redatta da Sua Eminenza, si propone di approfondire ulteriormente i concetti discussi nell’incontro, offrendo una prospettiva riflessiva e ispiratrice sul modo in cui l’uomo e la macchina possono coesistere in armonia nel futuro.

Carissimi professori, carissimi studenti,

vi ringrazio moltissimo per l’invito a partecipare in questo luogo così importante per Città della Pieve e su un tema cruciale per l’intera società contemporanea.

Noi oggi viviamo in un’epoca storica che pone alle nostre coscienze domande importanti e profonde inquietudini. Da un lato, la guerra è tornata drammaticamente al centro delle nostre preoccupazioni: il papa nel 2014 parlò, per primo e in solitudine, del rischio di una “terza guerra mondiale a pezzi”. Dall’altro lato, lo sviluppo tecno-scientifico sta rivoluzionando profondamente non solo i nostri stili di vita, ma il nostro modo di stare al mondo. La tecno-scienza può arrivare a mettere in discussione, addirittura, la statura ontologica dell’uomo.

Tutti noi viviamo in un periodo che potremmo definire di “lunga transizione” in cui, da un lato, percepiamo la novità dei cambiamenti, e dall’altro lato, però, non riusciamo a cogliere, fino in fondo, la portata culturale di questi mutamenti. In questo stato di incertezza sociale, che spesso pervade non solo i rapporti umani ma anche quelli culturali e politici, rischiamo di essere, tutti quanti, delle persone che “gridano nel deserto”. È questo un rischio altissimo delle società contemporanee. Società con un rumore di fondo ossessivo, ipertecnologiche e interconnesse, apparentemente opulente e autosufficienti, ma che di fatto sono dei deserti di relazioni umane.

Allora, proprio per questo, ben venga un incontro come questo, con un titolo impegnativo, a cui io vorrei lasciare tre brevi spunti di riflessioni. Tre suggestioni che non hanno alcuna pretesa di essere esaustive, ma che hanno l’unica ambizione di essere meditate. Questi tre punti li sintetizzerei con tre espressioni: segni dei tempi; futuro della natura umana; e nuovo umanesimo.

Il primo aspetto, i segni dei tempi, rimanda ad una parola del Concilio Vaticano II con cui, scriveva Paolo VI, «il mondo per noi diventa libro». Questa espressione evoca la centralità di una storia che si tramanda di generazione in generazione, che ha origine prima della nostra esistenza e che continuerà dopo di noi. Non dobbiamo aver paura di vivere il nostro tempo, ma abbiamo il dovere di analizzare cosa si muove sotto la superficie del mare e di capire come e perché si muovono le correnti che agitano il mondo in cui viviamo. Giorgio La Pira chiamava questo suo sguardo profetico sulla contemporaneità con un’espressione che derivava proprio dal suo essere, in origine, un uomo di mare: la storiografia del profondo.

Tutti noi siamo chiamati ad esercitare questo sguardo e ad assumere questa prospettiva storica. Una prospettiva che oggi sembra essere un po’ marginale nel dibattito pubblico ma che invece, a mio avviso, continua ad essere estremamente importante. Soprattutto sui temi di cui voi oggi sarete chiamati a riflettere. C’è infatti un rischio sulle tematiche tecnologiche: quello di essere troppo racchiusi nella contemporaneità perché si è troppo proiettati sul futuro. Ovviamente, come dirò successivamente, parlare di futuro è decisivo, ma non dobbiamo correre il rischio, però, di dimenticare che il mondo in cui viviamo è il prodotto di un processo storico le cui radici sono molto ben radicate nella storia.

Vorrei richiamare solo un evento del passato che ancora oggi è oggetto di discussione. Io appartengo ad una generazione molto differente da quella attuale. La generazione della Seconda guerra mondiale: ho visto la distruzione del conflitto, ho conosciuto la disperazione degli orfani di guerra, ho toccato con mano la povertà di chi non aveva nulla. Ma anche in quell’occasione si parlava molto di sviluppo tecnologico. Non si parlava di intelligenza artificiale o di robotica ma di un’altra questione. Sapete quale? La bomba atomica. Lo sviluppo scientifico e il genio umano avevano costruito il più grande strumento di morte della storia umana. Per moltissimi anni i filosofi si sono interrogati sul possibile utilizzo della bomba atomica e sulla distruzione dell’intere genere umano. E tutti noi abbiamo vissuto con la paura che questa eventualità potesse diventare una realtà. E questa tensione, queste domande hanno prodotto delle idee, delle parole, dei valori che volevano essere una risposta a questa inquietudine. Probabilmente il documento pubblico più importante di quegli anni è l’enciclica Pacem in terris del 1963 e nasceva da una riflessione – che aveva radici storiche profondissime – non solo sulla guerra ma anche sull’utilizzo pericoloso di alcune scoperte scientifiche. Perché il problema decisivo non è lo sviluppo tecnologico ma l’uso che ne facciamo.

Ecco ad eventi come questi mi riferisco quando evoco i segni dei tempi. C’è una storia che ci sovrasta, come ci insegna Isaia, a cui tutti noi dobbiamo saper guardare con intelligenza e fede. Cercando di interrogarci incessantemente sul destino dell’uomo senza paura e con coraggio.

Questo riferimento al destino dell’uomo mi permette di introdurre il secondo spunto di riflessione, il futuro della natura umana.  Ho scelto, non casualmente, questa denominazione perché è la citazione del titolo di un noto libro di Jürgen Habermas, uno dei massimi esponenti viventi della cultura laica. In quel volume, il filosofo tedesco, all’interno di una riflessione filosofica su cui non intendo soffermarmi, paventava anche i rischi prodotti dall’incontro tra la medicina della riproduzione e l’ingegneria genetica. Un incontro ritenuto pericoloso da Habermas non solo perché apriva «la strada alla coltivazione degli organi e agli interventi di modificazione terapeutica del genoma» ma soprattutto perché questo binomio tra la medicina e l’ingegneria genetica veniva regolato, di fatto, dalla legge della domanda e dell’offerta: ossia dal mercato.

In questo modo, Habermas delineava una società in cui ogni singola persona era libera di poter decidere e stabilire che uso fare della propria vita e, al tempo stesso, descriveva una società in cui veniva esaltato il potere taumaturgico della tecnica – che aveva reso «disponibile» ciò che prima era «indisponibile», ovvero la creazione della vita – e lo strapotere dell’economico nella vita degli uomini che ormai veniva assurto a criterio di giudizio e di regolazione sociale anche nelle questioni più delicate ed eticamente sensibili. 

Questa analisi di Habermas – che è solo una piccola parte di una riflessione ben più vasta e che avrebbe anche dato vita ad uno storico incontro nel 2004 con l’allora cardinal Ratzinger presso l’Università di Monaco – rappresenta, laicamente, un prologo intellettuale fondamentale per capire uno dei punti centrali dell’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco. Un’enciclica che ha come tema portante la “cura della casa comune” ma che, come è stato ben sottolineato, ha il suo cuore pulsante nell’analisi del potere nel mondo contemporaneo sulla scorta delle riflessioni del teologo Romano Guardini.

Le nostre società, infatti, sembrano essere attraversate da una profonda crisi antropologica che sta mercificando tutto, persino il corpo degli esseri umani, e sono immerse in una diffusissima «cultura del benessere» che finisce per anestetizzare la mente e il cuore delle persone, essenzialmente in due modi: innanzitutto, tramite una «nuova idolatria del denaro»; e in secondo luogo, attraverso la riduzione dell’essere umano «ad uno solo dei suoi bisogni»: ovvero «il consumo». Di fronte a questa crisi di senso sull’uomo e mi chiedo, da tempo, se oggi ci troviamo di fronte a “quell’uomo-non umano” descritto da Guardini nel suo celebre libro La fine dell’epoca moderna.

Quanto detto fin qui mi permette di arrivare al terzo e ultimo elemento di riflessione, il nuovo umanesimo. Che a mio avviso è una grande sfida, non solo per la Chiesa, ma per l’umanità intera. Dobbiamo essere chiari su un punto: nel mondo contemporaneo, è ormai emersa una nuova questione sociale che investe la sfera economica e quella antropologica, la dimensione culturale e quella politica, i cui riflessi si fanno sentire profondamente anche in ambito religioso. È la consapevolezza di questa nuova questione sociale che ci impone la sfida del nuovo umanesimo. Una questione sociale che tende ad interpretare e a vedere in modo unitario la crisi antropologica e quella economica, la crisi ambientale e quella politico-culturale.

Il nuovo potere tecnico non è solo un’applicazione economica della scienza nella vita quotidiana ma è una concezione filosofica del mondo e una visione parareligiosa della vita comune. Per questo motivo, io mi sono sempre permesso di esortare con forza intellettuali e scienziati a dare una nuova forma e un nuovo senso a quell’umanesimo cristiano e laico che per secoli ha caratterizzato la vita quotidiana del continente europeo. La sfida del nuovo umanesimo non è una questione da eruditi rinchiusi nella Torre Eburnea ma è un progetto di grandissimo respiro che ha come ambizione ultima la “custodia dell’umanità”.

Nel 2006 un matematico inglese ha scritto che i “dati sono il nuovo petrolio”. Secondo questo scienziato, così come il petrolio ha permesso lo sviluppo socio-economico mondiale tra il XIX ed il XX secolo, nel XXI secolo sono le connessioni, le tecnologie ed i dati a svolgere questo importante ruolo. Quest’affermazione ha un’importante ripercussione, perché, da quanto detto, sembra che il “dato” sia più importante “dell’uomo” e che i “dati” siano al centro dei rapporti sociali ed economici. Sembra delinearsi la prospettiva della creazione di una sorta di nuovo Adamo tecnologico. Una prospettiva che suscita molte riflessioni. Mai come oggi, pertanto, è fondamentale «andare verso l’uomo» perché, come scriveva Emmanuel Mounier, la persona umana, non solo «non è un oggetto», ma è «l’unica realtà che ci sia dato di conoscere e, in pari tempo, di costruire dall’interno».

Ecco allora la necessità, come ha detto in più occasioni Papa Francesco, di «un nuovo umanesimo vicino agli ultimi». Un umanesimo non di facciata, non solo teorico, ma estremamente concreto, che si proponga di umanizzare la tecnica, rendendola al servizio dell’uomo, e di custodire la vita umana in ogni istante dell’esistenza. Un umanesimo che si prefigga di combattere la povertà, che promuova un rinnovamento morale della società e che produca una civilizzazione dell’economia.

La prospettiva di un nuovo umanesimo oggi si presenta come una sfida estremamente difficile perché l’uomo moderno che abbiamo di fronte è un uomo sempre più spaesato, sempre più solo e disorientato e, soprattutto, sempre più fragile. Per questo motivo, voglio concludere questa mia breve riflessione con le parole di un filosofo cattolico americano, Michael Novak, il quale delineando il profilo di San Giovanni Paolo II, ha scritto che il “massimo contributo” di papa Woytjla “è stato quello di far conoscere al mondo un nuovo umanesimo cristiano. Egli indicò in Gesù Cristo la sua massima rappresentazione: la Persona incarnata come nuovo modello per gli esseri umani che aspirano a realizzarsi secondo il Progetto divino”.

Il mistero dell’incarnazione, dunque, si rivela al mondo come un fatto concreto e un evento storico. Un evento straordinario da cui scaturisce un “modello” per tutti quegli uomini e quelle donne che ambiscono a conformarsi allo spirito di Dio. Un “modello” per tutti quegli esseri umani che vogliono, prima di tutto, “essere” cristiani e non limitarsi a “fare” i cristiani. Da quel fatto e da quel modello nasce, quindi, un uomo nuovo, un’umanità nuova e, infine, un nuovo umanesimo.

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